Due chirurghi plastici in missione con la Protezione civile dopo il disastroso incidente di Freetown

di Francesco Unali

14 febbraio 2022 - Freetown, 5 novembre 2021: nel quartiere di Wellington un'autocisterna piena di carburante si rovescia attirando la curiosità dei passanti. All'improvviso una violenta esplosione sorprende i curiosi e quanti si erano avvicinati per accaparrarsi un po' di benzina. Sono oltre 100 i morti, centinaia i feriti ustionati gravi. Il governo della Sierra Leone lancia la sua richiesta d'aiuto all'Unione Europea e il governo italiano attiva il Dipartimento della Protezione Civile e la direzione sanitaria del Policlinico Universitario Campus Bio-Medico raccoglie l'appello di Ares 118 Lazio. Così dal 18 al 28 novembre scorsi il direttore dell'Unità di Chirurgia plastica Paolo Persichetti e lo specializzando Carlo Mirra hanno fatto parte della staffetta internazionale di medici impegnati nell'emergenza. Insieme a loro anestesisti di Roma e Bologna, medici e infermieri del Niguarda di Milano.

"Abbiamo seguito quotidianamente oltre 20 persone effettuando trapianti di cute, rimuovendo i tessuti necrotici ed evitando le infezioni – spiega il prof. Paolo Persichetti - Ogni mattina il gruppo si incontrava per discutere i casi prioritari. Abbiamo operato presso l'ospedale di Emergency e il Choitram Memorial Hospital. È stata un'esperienza molto forte, visti i grandi contrasti tra le ricchezze presenti nel Paese e la povertà estrema delle persone che hanno un reddito di circa 2 dollari al giorno”.

Freetown, capitale africana da due milioni di abitanti, è affacciata sul mare con delle splendide montagne alle spalle: tante le baraccopoli e le persone che vivono in strada, pochissimi i servizi, a partire dalla sanità. Gli ospedali sono insufficienti e spesso nati per iniziativa di Ong o di altri Paesi, come nel caso di Emergency o della repubblica indiana. "In questa missione umanitaria c’era in gioco la vita di molti pazienti – ricorda ancora Persichetti – le condizioni di lavoro non erano semplici e mancavano molti farmaci. Abbiamo dovuto basarci sull'esperienza clinica essendo molto difficile monitorare i pazienti. Una lezione molto significativa per la nostra professione, oggi così abituata a usare strumentazioni precise ma che rendono i medici meno pronti ad analizzare da soli i problemi e a impostare autonomamente le terapie”.