di Giovanni Mottini - Università Campus Bio-Medico di Roma

Il panorama dell’aiuto allo sviluppo

La situazione sociale, economica e umana dei Paesi in Via di Sviluppo (PVS) diventa sempre più una fonte di preoccupazione per l'opinione pubblica internazionale. Non si tratta pero', vale la pena di sottolinearlo, di un ravvivarsi della sua sensibilità per i mali cronici che affliggono questi paesi, ma di una  inquietudine crescente nel constatare che tutto, nonostante tutto, sembra ostinarsi ad andare male. Oggi l'Africa detiene tutti i primati negativi: Prodotto Nazionale Lordo, debito estero, industrializzazione, esportazioni, calorie e reddito pro-capite, aspettativa di vita, mortalità infantile, alfabetizzazione, degrado ambientale, violazione dei diritti umani….. In realtà sono in molti a rendersi ormai conto che questo "nonostante tutto" ha lasciato molto a desiderare negli anni trascorsi e sono pure molti coloro che parlano della necessità di una revisione critica profonda dell'impegno per lo sviluppo, non solo nei suoi mezzi ma anche nello spirito che lo anima.

Si è tutti d'accordo nella constatazione che il modello assistenziale non può rappresentare la strada per l'affrancamento dei popoli dall'indigenza.

D'altra parte, fatti recenti come quelli ancora in corso nella regione dei Grandi Laghi, hanno dimostrato,  una volta di più, tutti i limiti della politica dell'emergenza. Limiti non d'ordine tecnico-logistico ma strategico e politico che si sono tradotti in una oggettiva intempestività di fronte alle catastrofi umanitarie che si era chiamati a fronteggiare se non addirittura in autentiche impasses politico-diplomatiche mentre i drammi di centinaia di migliaia di vite umane si consumavano inesorabilmente.

Il panorama risulta sconcertante e sconfortante.

Di fronte a tutto cio' c'è una prima, immediata lezione che si puo' trarre, ed è quella di fare attenzione a non cadere in quella che si potrebbe sinteticamente chiamare "la logica delle scontatezze".

La tipica scontatezza è riconoscibile per il fatto di essere  un affermazione palesemente giusta e universalmente condivisibile ma, all'analisi dei fatti, invariabilmente insoddisfacente. Un esempio paradigmatico è dato dall'affermazione: "prevenire è meglio che curare". Con una fraseologia più o meno raffinata questa espressione ricorre in tutte le dichiarazioni d'intenti dei rappresentanti degli organismi di aiuto umanitario nazionali e internazionali, e cio' ormai da molto tempo. Ne costituisce addirittura una premessa intenzionale e una regola operativa. D'altronde, la dichiarazione di Alma Ata è nata per essere  anche la traduzione pratica di principi come questo.

Un'altra "scontatezza" è rappresentata dal detto, ormai molto diffuso:"a chi ti chiede un pesce insegna a pescare". Di fatto si vuole sottolineare, con una espressione di cui a tutti appare chiaro il buon senso, la necessità di andare oltre la logica del semplice soddisfacimento di un bisogno, per trasferire invece una conoscenza e degli strumenti che trasformino il bisogno in una occasione di superamento dei propri limiti, nell'acquisizione di un know-how che è indice di uno  progresso; cioè appunto di uno sviluppo umano.

La stessa priorità delle risorse umane; una "scoperta" che si è fatta un po' dappertutto, a cominciare dalla cultura d'impresa di stampo americano e quindi mutuata alla scienza dello sviluppo umano, rischia il marchio della scontatezza di fronte alla constatazione che le strategie educative e formative per i PVS sembrano  registrare un impatto troppo debole e effimero una volta messe a confronto  alle convulsioni sociali e politiche a cui questi popoli sono perennemente esposti.   

Ma perché ciò che è giusto come principio finisce per essere scontato?

I perché di un insuccesso

Esistono strategie operative, organigrammi, schemi e protocolli  che sono sulla carta ormai da decenni e, sulla base dell'esperienza acquisita, sono già stati introdotti tutti i correttivi necessari per renderle applicabili.

Di fatto, in tema di assistenza sanitaria, sviluppo agricolo e industriale nei PVS si può affermare che non ci sono  soluzioni  e strategie particolarmente innovative da elaborare e quelle formulate hanno tutti gli elementi necessari per poter essere efficaci. In compenso, anche  ad una analisi superficiale dei risultati, appare evidente la grande sproporzione esistente fra risorse impiegate e risultati ottenuti.

Non resta che constatare come il Terzo Mondo, "nonostante tutto", continua a sembrare una nave senza timoniere. Quel "nonostante tutto" ci dice appunto che i principi giusti non hanno avuto l'efficacia attesa, al punto di perdere gran parte della loro valenza e ridursi, appunto, a modelli operativi scontati.

E' evidente allora  che esiste una distorsione nel sistema. Qualcosa di simile a ciò che, in linguaggio statistico, viene chiamato, con un termine anglosassone, bias. Si tratta della la presenza di un fattore, un errore sistematico,  capace di alterare totalmente la veridicità di un risultato, di un modo di interpretare la realtà.

Qual'è, quindi, l'errore sistematico capace di vanificare gran parte degli sforzi per uno sviluppo equilibrato dell'umanità?

Se sostituiamo l'aggettivo "scontato"  con "svuotato", che ne è ,in buona misura, un sinonimo, abbiamo una possibile chiave di interpretazione del fenomeno che stiamo analizzando. In effetti si ha l'impressione che dietro questi principi, o forse, meglio detto, dentro questi principi, esista un vuoto concettuale che è la ragione principale della loro inconsistenza e inefficacia. Questo vuoto è essenzialmente riferibile alla mancanza di un contenuto antropologico autentico, cioè di una scienza-conoscenza dell'uomo, del suo essere e del fine del suo agire. Senza questo contenuto, infatti, la lettura della realtà si appiattisce inesorabilmente sull'analisi dei fatti, dei dati, degli indicatori. Infatti la logica degli indicatori ( di salute, di benessere, di sviluppo), elaborata per rappresentare la realtà e renderla più misurabile, è ben lontana dall'esaurire il significato degli eventi e ancor più dal comprenderne le cause e, di conseguenza, individuare le vere soluzioni ai problemi.

L’etica dello sviluppo umano

La strada è quella della riscoperta del senso dell'evento rispetto al numero, alla statistica, alla sua analisi tecnico-scientifica. Al di là, quindi, anche della stessa causa materiale degli eventi.

Non c'è bisogno di altre perifrasi per comprendere che tutto ciò significa, ancora una volta, l'affermazione del primato dell'uomo contro quei riduzionismi antropologici che hanno inficiato la cultura occidentale e condizionato lo sviluppo umano.

Ma anche la semplice affermazione di questo primato (quante volte lo si è proclamato in tutte le circostanze e le sedi possibili?) non  può bastare a dare una risposta compiuta alla "crisi di senso" che rappresenta, in definitiva, la diagnosi più appropriata alla situazione che stiamo esaminando.

 Si rende necessario, come dicevamo più sopra, proporsi di  scoprire il senso degli eventi umani. Parlare del senso di un atto umano significa parlare del suo fine, vale a dire del suo perché e, vale la pena di sottolinearlo, del suo per chi. Come affermava lo psichiatra austriaco Vicktor Frankl, con una  intuizione splendida e ardita, frutto della sua esperienza di intellettuale, prigioniero nei lager nazisti:"si può anche vivere senza saperne il perché, ma non si potrà mai vivere senza sapere per chi si vive". "Perché" e "per chi" sono le componenti essenziali dell'analisi dell'agire umano. Non c'è dubbio che, fino ad oggi, ha invece prevalso  il "come" agire. Ma, al di là dei protocolli di comportamento e della definizione di obiettivi, l'uomo non può fare a meno, per sua natura, di ricercare le motivazioni profonde del suo agire e, quindi, del suo vivere.

La conclusione è che lo sviluppo, in quanto fenomeno umano, è, immediatamente, un fenomeno morale, cioè etico.

Una simile concezione, se portata alle sue conseguenze logiche, implica uno cambiamento  radicale della strategia di fondo dello sviluppo umano. Cambiamento radicale significa proprio andare a sostituire  le radici dell'intero sistema. Non il suo apparato esteriore, quindi, che conserva la sua validità, ma l'origine di quell'errore sistematico, di quella distorsione che abbiamo individuato nel  vuoto di fine e di senso, cioè nel vuoto antropologico.

Questa prospettiva etica dello sviluppo assume un ruolo di straordinaria efficacia nel momento in cui viene tradotto nel fattore chiave della formazione umana. Ovunque, nei programmi di cooperazione allo sviluppo, si parla di formazione dal momento che la sua importanza non è sfuggita agli analisti dello sviluppo, ma è rarissimo trovare nei programmi di formazione alle conoscenze e alle competenze, elaborati per il personale dei PVS, una educazione (nel senso latino di educere, far venir fuori) alle motivazioni della promozione umana. Ancora una volta si tratta di porsi le domande del perché e per chi: perché e per chi apprendere, perché e per chi fare, perché e per chi migliorare?

L'uomo ha bisogno di queste risposte, più ancora quando sembra saper vivere anche senza. Proprio allora, infatti, quando il bisogno è culturalmente meno espresso, significa che più forte è sua necessità.

Un intento di formazione etica di questa portata presuppone l'esistenza di un deposito culturale etico profondo e autorevole. La sua scarsa presenza e influenza  nel panorama della cultura occidentale è la causa principale della sua non applicazione. La realtà è che proprio la cultura occidentale, chiamata a un ruolo di protagonista dello sviluppo, soffre le conseguenze di un impoverimento etico che la rende incapace di proporre un modello autorevole di uomo e di umanità.

Sapere biomedico e sviluppo umano

Come spesso accade in un sistema logico, quando una delle componenti è deficitaria altre componenti del sistema rischiano di andare incontro ad una sorta di iperplasia  che, con frequenza, si rende difficilmente controllabile. Il progresso scientifico in ambito biomedico ha fatto enormi passi in avanti negli ultimi cinquanta anni e proprio in questo passaggio di secolo, e di millennio, appare sempre più evidente che le “scienze della salute” rappresentano il settore di conoscenze che maggiormente concorrono a forgiare un nuovo modello di società. Una società che, non a caso, per le sue caratteristiche più determinanti viene definita “biotecnologica”. Qualche osservatore, particolarmente attento a quella virtuale e sofisticata rappresentazione della nostra società che è Internet, ha infatti sottolineato il dato che uno dei settori più attivi e promettenti del mercato della rete è appunto quello della salute umana, in tutti i suoi aspetti.

Non ci interessa ora indagare le problematiche di natura strettamente bioetica che le nuove tecnologie vanno dischiudendo: fecondazione in vitro, manipolazione genetica, clonazione, discriminazione genetica; alcune già attuali, altre davvero prossime a venire. Ci interessa piuttosto sviluppare una riflessione che si pone a monte di questi fatti ma che, non per questo, smette di essere di natura propriamente etica.

Verso gli inizi degli anni ottanta, ancora sulla spinta della Dichiarazione di Alma Ata, l’OMS lanciò lo slogan “Salute per tutti nell’anno 2000”.  Questo obiettivo, benché legittimo e auspicabile, non solo è apparso quasi subito irraggiungibile ma, se guardiamo alle tendenze che dominano il mondo delle scienze biomediche, risulta addirittura evidente che sta piuttosto realizzandosi l’obiettivo inverso: di una livello di “salute eccellente per una cerchia sempre più ristretta di persone” con il conseguente acuirsi del divario di qualità di assistenza sanitaria fra paesi occidentali e paesi in via di sviluppo. Médecins Sans Frontières ha lanciato da circa un anno una compagna per l’”Accesso ai Farmaci Essenziali” che, fra gli altri meriti, ha anche quello di portare a conoscenza dell’opinione pubblica alcuni dati particolarmente eloquenti: ogni anno vi sono 17 milioni di decessi dovuti alle malattie infettive, più del 90% dei casi di malattie infettive e di decessi dovuti a queste malattie nel mondo si registrano nei PVS, il 20% della popolazione mondiale dispone dell’80% della produzione mondiale di farmaci. I dati dal mondo della ricerca terapeutica sono ancora più suggestivi della tendenza in corso: lo 0.2% della ricerca farmaceutica riguarda le infezioni gravi del sistema respiratorio, la tubercolosi e la diarrea, allorché il 18% dei decessi è proprio attribuibile a queste malattie; dal 1975 al 1997, su 1233 nuovi farmaci brevettati nel mondo, solamente 13 (cioè l’1%) riguardava il trattamento di malattie tropicali. Ecco appunto lo squilibrio, l’iperplasia di una parte del sistema e l’ipoplasia dell’altra parte.

Sul palcoscenico mondiale il progresso biomedico appare dunque sempre più come una sorta di serra dove  crescono piante  rigogliose, dai fiori e dai frutti sorprendenti e benefici ma situata in mezzo ad un vasto giardino lasciato quasi incolto. La maggior parte degli sforzi e delle risorse sono consacrati a sviluppare le piante della serra, ma  la maggior parte degli abitanti del giardino non vi può accedere e si deve accontentare dei magri frutti inselvatichiti del giardino, pressoché abbandonato a se stesso…

Le proposte  per coltivare il giardino

Ai giorni nostri, dunque,  il panorama del sapere biomedico e, più in generale, quello della salute umana sembrano rappresentare meglio di altri il paradigma dell’ingiustizia sociale nel mondo. Non a caso la metafora del giardino e della serra può essere avvicinata concettualmente a quella del villaggio  globale di MacLuhan, divenuta il paradigma del fenomeno della globalizzazione, e mostra gli effetti distorsivi, a livello planetario, di un sistema di sapere  che procede sganciato dalle esigenze etiche e antropologiche di cui si parlava più sopra.

Chi governa l’avanzare di questo progresso non è affatto inconsapevole di quanto stia avvenendo. Sono sempre più frequenti i richiami alla necessità di trasferire i benefici del progresso biomedico raggiunto nell’Occidente ai bisogni impellenti delle popolazioni dei PVS.

Il Direttore Generale dell’OMS, Dr. Gro Harem Bruntland, ha affermato, per esempio:“Dobbiamo investire in futuro sullo sviluppo di nuovi farmaci, nuovi vaccini, nuovi strumenti diagnostici. Il nostro impegno deve essere quello di creare gli incentivi e le adeguate condizioni economiche per combattere le malattie che oggi determinano e perpetuano la povertà. La ricerca e lo sviluppo sono degli strumenti  decisivi di questa strategia”.

L’Unione Europea ha intrapreso una vasta strategia di lotta [1] contro le cosiddette Poverty Related Deseases (PRDs: AIDS, tubercolosi e malaria anzitutto) - che colpiscono soprattutto i PVS - attraverso la creazione di partnership Nord-Sud per la realizzazione di trials clinici sulle patologie che alimentano il circolo vizioso povertà-malattia.

I recenti progressi scientifici stanno infatti dando nuovo impulso alle possibilità di intervento contro le PRDs e contro un ampio corollario di altre patologie. La ricerca sul genoma umano e di altri organismi viventi, compresi, ad esempio, i parassiti della malaria e i loro vettori; i risultati suggestivi  ottenuti dall’immunologia e dall’etnogenetica, hanno notevolmente incrementato la possibilità di condurre sperimentazioni mirate su tali patologie.

La novità di tale strategia sta proprio nella volontà di sostegno e coinvolgimento della classe medica dei PVS nei programmi di ricerca. Questo coinvolgimento è infatti  percepito come condizione ineludibile per garantire l’efficacia e la durata nel tempo degli interventi.

Ci si è resi conto, infatti, della necessità di affrontare i gravi problemi di salute dei PVS non solo con la fornitura di farmaci e risorse materiali, che rischiano di rivelarsi armi ormai spuntate e inadeguate, ma soprattutto con il trasferimento di conoscenze e competenze che contribuisca a colmare il gap di professionalizzazione tuttora esistente e che costituisce, in tali paesi,  un freno meno appariscente ma altrettanto sostanziale che quello di mezzi tecnici, al raggiungimenti di risultati soddisfacenti alla lotta contro le malattie.

Dunque, ancora una volta, la risposta adeguata ai problemi dello sviluppo umano si trova nella formazione. Ma è sufficiente pianificare la formazione come veicolo di sviluppo, trasferire conoscenze all’interlocutore locale perché si realizzi l’auspicato travaso di benefici del sapere biomedico  là dove più ve ne è bisogno?

Se si deve registrare il dato positivo della maturazione della consapevolezza della comunità mondiale riguardo all’esigenza morale di realizzare questa comunicazione del sapere e trasmissione di benefici del progresso biomedico, dall’altra parte ci sono segni abbastanza evidenti della deriva puramente tecnicistica di questo trasferimento di beni. In altre  parole  si cade nel fenomeno, già sopra evidenziato, di un appiattimento del sapere alla dimensione propria del know-how. La formazione così intesa  si riduce al “rendere qualcuno capace di fare qualcosa”, fosse anche lo scoprire come curare meglio le malattie, dando uno scarso contenuto alla dimensione del perché e del per chi mi adopero. E’ in agguato, ancora una volta, il rischio di una grossa distorsione (un bias) del sistema capace di ingenerare una nuova “scontatezza”: quella di un Nord sempre più biotecnologico che mette a disposizione i frutti del suo progresso scientifico per arrivare, prima o poi,  sconfiggere le malattie del Sud del mondo.

Per un’etica sociale della medicina

Come fare per evitare questo nuovo effetto distorsivo?

Si diceva che lo sviluppo, prima ancora che un fenomeno tecnologico, è un fenomeno morale, etico. E questo perché è il risultato di un complesso di atti umani, singoli e collettivi, che concorrono al realizzarsi di situazioni che, di volta in volta, promuovono o si oppongono – e spesso con un meccanismo di omissioni ripetute -  alla dignità della persona umana e di interi popoli.

Il primo passo dunque non può essere semplicemente operativo. Si richiede una riflessione; etica, appunto. Ciò che deve essere messo anzitutto sotto esame è il fine del progresso biomedico, prima ancora del modo in cui mi propongo di perseguirlo. E’ al di fuori di se stesso - si potrebbe dire, parafrasando il teorema di Godel - che trova la sua ragion d’essere. La dimensione etica da soddisfare non è solamente quella della liceità o meno di un procedimento scientifico o di una ricerca biomedica,  ma anche quella delle scelte umane che conducono all’allocazione delle risorse economiche disponibili per il progresso biomedico in una direzione piuttosto che  in un’altra. In questo senso va riconosciuto che il mondo della ricerca non è affatto indipendente nella scelta sul dove orientare i suoi sforzi. Ha un peso assolutamente preponderante la logica di mercato che investe sulla ricerca e sviluppo per ricavarne profitti economici. E questa logica resta ben lontana dal porsi obiettivi umanitari.

Tutto ciò rende prioritario l’impegno, da parte del mondo della cultura, per la promozione di un’ etica sociale della medicina; l’etica delle scelte che riguardano il bene della salute di una collettività ormai da intendersi in prospettiva “globale”,cioè mondiale.

Pertanto ciò che risulta più urgente non è tanto la formazione tecnologica dell’”interlocutore locale” dei PVS, sulla quale si sta ponendo l’accento, quanto piuttosto la formazione umanitaria – il che vuol dire etica e antropologica – di tutti coloro che sono o saranno chiamati a governare lo sviluppo del sapere biomedico nell’occidente industrializzato.

Si tratta di un compito che deve investire anzitutto quei luoghi che loro propria vocazione si dedicano alla ricerca e alla trasmissione del sapere: primo fra tutti, dunque, il mondo universitario e in particolare in quelle sue componenti più direttamente coinvolte nelle dinamiche della salute mondiale: le facoltà di medicina, di biologia e di farmacia, ma anche quella parte dell’economia che sempre più si occupa del mondo della salute.

Va infatti scalzato alla base il riduzionismo antropologico che fa da premessa alla elaborazione delle strategie di politica sanitaria e che tende a interpretare i diritti fondamentali della persona umana - il singolo individuo ma anche interi popoli -  attraverso il prisma e la misura della sua capacità di produrre e che inficia e condanna a risultati insoddisfacenti o contraddittori ogni iniziativa per i PVS.

Al mondo universitario e della cultura spetta dunque il compito delicato e fondamentale di informare il sapere biomedico di quei principi etici e antropologici che sono necessari per dare lo spessore di una terza dimensione al contenuto tecnico e scientifico che lo caratterizza e lo compone.

Se questo compito già sussiste nel contesto stesso della cultura occidentale, di fronte alle frequenti  minacce  al rispetto della vita umana che un uso improprio di questo sapere porta con sé, la prospettiva della cooperazione con i PVS lo arricchisce di una forte impronta sociale in chiave planetaria e “globale”  che conferma e rende più manifesta la sua irrinunciabilità.

 


[1] European and Developing Countries Clinical Trials Programme on Poverty Related Deseases : EDCTP