di Giovanni Mottini - Università Campus Bio-Medico di Roma - Universitas, n. 115 - marzo 2010, pag. 36-39

È davvero possibile insegnare la solidarietà all’università? Probabilmente se ci limitassimo a partire dalla semplice definizione, di superficie, dei due termini: solidarietà come virtù sociale e università come luogo e istituzione  in cui si accresce e si trasmette il sapere, continueremmo a restare lontani dal poter dare una risposta positiva alla nostra domanda. Una virtù, in senso stretto, non si può “insegnare” ma sostanzialmente solo praticare: non è un sapere formulato da accrescere e non è neppure trasmissibile ad altri, se non  come pura nozione.

Ma a rendere negativa la risposta alla nostra domanda non è tanto il significato della solidarietà; che ha una sua identità ben precisa, quanto piuttosto una visione riduttiva dell’università. La visione classica humboltiana di università come “solitudine e libertà” , a cui nel tempo si sono unite,  con effetto distorsivo, le derive scientiste della moderna filosofia della scienza, continuano a condizionare pesantemente la visione dell’essere e dell’agire universitario. Ne deriva l’immagine di una istituzione che contraccambia il prezzo della sua presunta neutralità etica con una congenita rinuncia ad una identità e a un ruolo sociale che sappia andare  al di là del binomio - ormai  stereotipato - della sempre auspicata sinergia  università-impresa. In altre parole l’università è diventata banco di lavoro, sia pure intellettuale, di una rigida catena di montaggio finalizzata alla produzione di beni per la società.

In  una università di questo tipo non c’è spazio per la solidarietà, né insegnata né praticata.

Si ha la necessità di ripartire da una visione diversa dell’università. Anzitutto va recuperata la sua dimensione di “comunità umana”: comunità di docenti e di discenti che si ritrovano insieme per perseguire un fine sociale. In altre parole si riafferma l’identità etica dell’istituzione, che ha la sua ragion d’essere nel realizzare un compito a servizio del bene comune.

Solidarietà, università e globalizzazione

In una  università-comunità tutti sanno di avere un ruolo da svolgere  per il raggiungimento di obiettivo comune. La relazione umana non è più una semplice relazione di contiguità fisica imposta dall’organizzazione del lavoro, e di scambio di informazioni, ma è una relazione di senso e di mutuo sostegno orientato a un fine.

In questa ottica la solidarietà, prima ancora di poter essere insegnata, va vista come il tessuto connettivo che rende “solida” la relazione umana e “solidale” il modo di agire di tutti i componenti della comunità stessa.

A questo punto possiamo arrivare a dire che, in effetti, la solidarietà va anzitutto vissuta dall’università stessa come qualcosa di irrinunciabile per la  garanzia della sua identità e della sua mission.

Dove l’università riesce davvero a essere comunità la solidarietà non avrà bisogno di essere insegnata; sarà semplicemente “coltivata” nei membri  che di volta in volta entrano a far parte della comunità stessa; vale a dire anzitutto gli studenti che si susseguono negli anni accademici. Al docente spetterà il compito di essere modello imitabile di solidarietà attraverso il suo stile di lavoro e l’orientamento di  servizio alla società che saprà dare al contenuto del sapere che trasmette.

È indubbio che una università-comunità con forte identità etica quale abbiamo rappresentato avrà già superato la congenita dissociazione dal contesto sociale in cui si trova; anzi, sarà un’istituzione  costantemente orientata a dare risposte pertinenti ed efficaci ai bisogni della società nella quale si ritrova immersa per sua precisa scelta.

L’ intrinseca prospettiva universale (università come universalità del sapere) non potrà che incontrarsi allora  con il fenomeno della globalizzazione. Globalizzazione economica, del sapere, dell’informazione, ma necessariamente anche dei bisogni umani.

Lo spirito universitario sarà allora attento alle attese e ai bisogni di un sud del mondo che bussa alle porte dell’occidente e che cerca soluzioni ai suoi problemi.

L’educazione universitaria alla solidarietà troverà dunque un vasto campo di applicazione nell’aiuto ai Paesi in Via di Sviluppo.

L’esperienza dell’Università Campus Bio-Medico (CBM) di Roma con l’Africa

Il CBM di Roma è un’università che porta nella sua stessa mission la dimensione solidaristica del lavoro universitario. Recita infatti la sua carta delle finalità: l’università vuole….promuovere il senso della solidarietà e della fraternità, che si manifesti in opere, sapendo mettere il proprio il proprio prestigio professionale a servizio del bene comune.

Questa promozione della solidarietà assume i connotati precisi di uno stile formativo che si propone di educare alla solidarietà attraverso lo stesso lavoro universitario; sia di ricerca che di docenza.

Il verbo educare è qui inteso nella sua accezione latina di e-ducere: vale a dire “tirar fuori” il patrimonio di idealità che è presente  allo stato nativo nei giovani che si affacciano al percorso universitario.

Questo patrimonio va valorizzato, e qui sta un elemento innovativo del processo formativo, soprattutto nei primissimi anni universitari; prima che lo studente venga inghiottito nel tunnel professionalizzante degli anni successivi, trasformando gli ideali di servizio al prossimo, insiti nella vocazione stessa del medico, in vaghe aspirazioni che ben difficilmente troveranno più spazio e tempo nella vita professionale.

Ciò che è veramente in gioco, e che fa la differenza di qualità nel lavoro universitario, è il rapporto che esiste fra competenze (cioè saperi), passioni e compassione.

Il lavoro di e-ducere, come componente di uno stile formativo universitario, consiste proprio nel coltivare la passione per l’uomo, che nasce dalla disposizione a provare compassione per l’altro, e la passione per il sapere, che sorge dalla curiositas di fronte alla complessità e varietà del reale e agli orizzonti dello scibile, per trasformarle in competenze professionali orientate ad un autentico servizio.

Una traduzione pratica di questo modus docendi è quello di concepire e praticare sempre una ricerca biomedica socially oriented. Cioè competenze scientifiche che si interrogano anzitutto su quali sono i bisogni reali e più urgenti dell’umanità, prima di scegliere dove impiegare le proprie energie. Dunque coscienze con una forte concezione sociale dell’agire professionale del medico.

Opportuno è anche considerare che se da una parte la passione per l’uomo e per il sapere conducono all’acquisizione motivata delle competenze, non è affatto vero il contrario. Le realtà dimostra come le pure competenze, autoreferenziali e sganciate da una autentica attenzione all’uomo, non fanno nascere di per sé passioni, ma sono asservite più facilmente alle logiche di autoaffermazione e della mercificazione del sapere a fini economici.

La ragione di ciò ci sembra derivare dal fatto che la passione ha in sé una dimensione relazionale profonda, che la competenza da sola non possiede, né richiede. La passione esige sempre il confronto con l’altro, e diventa pertanto fonte e condizione dell’agire solidale.

Acquisire conoscenze dall’esperienza

Lo strumento didattico che fa da colonna portante di questo modello formativo è il corso aiuti umanitari; una attività didattica opzionale che si svolge lungo l’arco dell’anno accademico costituita da incontri con attori del mondo dell’aiuto umanitario e protagonisti di iniziative di cooperazione allo sviluppo, italiani e stranieri. Una formula dunque lontana dal modello della lezione frontale, e più orientata ad acquisire conoscenze dall’esperienza diretta di  testimoni della solidarietà internazionale. Una finestra aperta sul real world del sottosviluppo umano per conoscerlo dal suo interno.

A questa attività si affianca poi una dimensione più operativa: un training on the job rappresentato da esperienze dirette degli studenti nei PVS africani presso i partner del CBM in Africa. Le formule utilizzate sono quelle dei medical workamp con èquipe miste;  composte cioè da medici e studenti del CBM e da omologhi di università africane. L’attività svolta è pianificata in protocolli di ricerca epidemiologica concepita come componente di campagne di salute per la popolazione locale, con visite mediche, esami diagnostici e fornitura gratuita di farmaci per le patologie correnti.

Queste attività sono pensate per rendere possibile la partecipazione anche a studenti dei primissimi anni di corso: impreparati per un attività clinico-assistenziale, ma facilmente istruibili sulle metodiche della ricerca biomedica; spesso costituita da gesti relativamente semplici e ripetitivi ma che richiedono il rigore metodologico e l’impegno che una buona dose di entusiasmo giovanile sa garantire. L’esperienza di ricerca in condizioni difficili e di precarietà (ben lontane dalle comodità e asetticità dei laboratori europei), il contatto amicale e formativo con i colleghi africani, il confronto on una realtà di povertà e malattia fanno di questi workcamp una opportunità di  formazione integrale: umano-professionale di grande e profondo impatto.

Una formula adatta per studenti degli ultimi anni di corso è invece lo stage presso strutture ospedaliere africane in convenzione con il CBM. Qui l’opportunità di apprendimento diretto e la possibilità di incrementare i propri skills: pratiche di sala operatoria, ambulatorio, procedure diagnostiche e di semeiotica con una intensità e prossimità quasi impensabili presso le strutture italiane. Ma è soprattutto l’integrazione di queste componenti tecnico-scientifiche con l’esperienza di relazione umana e di contatto con la realtà sociale di questi paesi a costituire il vero valore aggiunto di simili esperienze.

Un team di giovani ricercatori per i PVS, con passione ed esperienza, si sta costituendo come patrimonio stabile dell’Università ed eredità da trasmettere alle generazioni di nuovi studenti.

Ulteriore aspetto, non marginale, è la produzione scientifica in termini di pubblicazioni con impact factor che si stanno accumulando come frutto del lavoro universitario realizzato nei workcamp e negli stage; a dimostrazione che la solidarietà universitaria è dimensione irrinunciabile di una professionalità matura, e non mero diversivo opzionale, per quanto lodevole.

La controparte locale  di queste iniziative sono i partner che costituiscono la  rete di istituzioni africane con le quali l’università ha stabilito rapporti di collaborazione; nata come obiettivo a lungo termine del progetto di creazione di una comunità di ricerca Nord-Sud che il CBM ha avviato da oltre 5 anni. Vi rientrano istituzioni universitarie e non di Congo, Cameroun, Uganda, Kenia e Madagascar.

Obiettivo di questa community è quello di fornire ai partner africani: università e istituzioni sanitarie  d’eccellenza, le competenze in materia di metodologia della ricerca biomedica per condurre insieme protocolli di studio sui più urgenti e diffusi problemi di salute delle popolazioni africane, o per mettere a punto modalità assistenziali e terapeutiche adattate al contesto dei PVS. La premessa a questa  strategia di intervento è nella convinzione che le grandi patologie che affliggono l’umanità con il più alto numero di vittime: AIDS, tubercolosi e malaria sono tutte presenti principalmente nel Sud del mondo, e non possono essere adeguatamente combattute solo con armi messe a punto negli asettici laboratori di ricerca occidentali. E’ imprescindibile  la partecipazione diretta di figure professionali locali: epidemiologi, ricercatori, clinici, fino ad arrivare agli animatori comunitari, che garantiscono la compliance della popolazione sia sul versante della ricerca che di quello interventistico e preventivo.

Senza questa alleanza i farmaci e i vaccini più efficaci rischiano di essere armi spuntate…o più semplicemente di non arrivare a destinazione nel posto e al momento giusto.

Fare ricerca biomedica in Africa non è dunque un controsenso rispetto agli enormi bisogni di assistenza che vi sono, ma un modo per rendere meno enormi questi bisogni, soprattutto nelle strategie di prevenzione e di sanità pubblica.

La ricerca epidemiologica consente inoltre di portare a conoscenza della comunità scientifica mondiale condizioni patologiche e dati scientifici altrimenti misconosciuti o sottostimati, e di attirare pertanto l’attenzione dei decisori delle politiche sanitarie internazionali per l’allocazione di  risorse e piani di intervento su tali problemi. In altre parole un azione di advocacy a favore dell’Africa che avviene grazie alla collaborazione fra università occidentali e africane.

Ricerca sì, ma affiancata da una riflessione umanitaria

È necessario però avere la consapevolezza che la presenza universitaria italiana, o comunque occidentale, in Africa svolge davvero questo compito prezioso se il suo principale intento non si esaurisce nella qualità e quantità della ricerca biomedica, ma risponde piuttosto a un obiettivo di crescita locale delle competenze a vantaggio del benessere globale della popolazione locale.

In molti casi si ha l’impressione che le non poche iniziative universitarie occidentali in Africa siano pensate e condotte più per fare ricerca biomedica occidentale in Africa che fare ricerca biomedica per e con l’Africa, facendo cioè crescere le competenze locali…Al sapere scientifico esportato non si affianca una seria riflessione umanitaria sui fini di tali iniziative, che restano pertanto sterili e privi di efficacia per quelle popolazioni che maggiormente dovrebbero giovarsene. La stessa Dichiarazione di Helsinki, nella sua edizione del 2000 a Edimburgo, non ha mancato di evidenziare questo paradosso; cristallizzato poi in un nuovo punto della dichiarazione stessa, pensato appositamente per i PVS, che raccomanda la necessità che la ricerca scientifica vada anzitutto a beneficio delle popolazione nelle quali essa è condotta. 

D’altronde va tenuto presente che la semplice trasmissione di conoscenze tecnologiche e scientifiche all’interlocutore e omologo locale; vale a dire del cosiddetto  know-how, pure essendo già un passo in avanti rispetto alla logica del puro assistenzialismo, non è affatto garanzia di incremento della tutela della salute e del benessere della popolazione. Paradossalmente l’esperienza dimostra invece che viene a rappresentare un passaporto e il biglietto di viaggio per il brain drain verso l’Occidente, o alla meno peggio favorisce il fenomeno della privatizzazione del sapere acquisito, che conduce al proliferare di un mercato locale della prestazione sanitaria privata, che ben poco contribuisce a garantire l’accessibilità ad una salute per tutti.

La ragione di tale fenomeno risiede nel fatto che una formazione appiattita sul solo dato tecnologico, sul know-how: sapere come fare le cose, trascura la dimensione del perché e del per chi le faccio. Trascura cioè le dimensioni che corrispondono alla coscienza e alla  responsabilità sociale per il bene comune che sono irrinunciabili nella autentica formazione di figure professionali; ovunque, ma più che mai in un PVS.

Ed è qui che torna a farsi sentire l’imprescindibilità di una cultura della solidarietà in chi, come l’università occidentale, si assume il compito di dare un contributo allo sviluppo umano.

Non si può dare all’altro ciò che non si possiede o non si vive.

Università: vivaio di professionalità solidali

L’università che porta nella propria matrice una cultura e una didattica della solidarietà quale abbiamo appena descritto si trova oggi a sanare una aporia di sistema la cui ragion d’essere sembra non essere stata ancora percepita appieno dagli stessi attori della cooperazione internazionale. Un neolaureato animato da spirito di solidarietà, che volesse oggi arricchire il proprio profilo professionale con una esperienza di aiuto allo sviluppo in un PVS, fino a farne possibilmente una scelta definitiva di vita e di professione, si trova infatti di fronte ad una barriera quasi insuperabile. Organismi nazionali e internazionali, governativi o non, richiedono invariabilmente a chiunque proponga loro la propria disponibilità la condizione di avere sufficiente esperienza di lavoro (2 o 3 anni almeno) in un PVS. Ciò è perfettamente plausibile dal punto di vista dei criteri di efficienza di   tali organismi.  Ma come è possibile avere in curriculum una tale esperienza se dunque essa stessa è una pre-condizione per potervi accedere? Ecco il senso dell’aporia.

Non si danno istituzioni dedicate a coltivare professionalità nel settore della cooperazione: si passa direttamente dall’apprendimento teorico professionalizzante delle istituzioni, universitarie e non, agli organismi che operano nella cooperazione senza che vi sia un elemento di raccordo e un’interfaccia sinergica  fra questi due mondi.

Sul piano della cultura della solidarietà si dà un vuoto formativo che è speculare alla suddetta aporia. Potremmo infatti  dire che il bagaglio di idealità e di motivazioni con cui il soggetto aspira di approdare al mondo dell’aiuto allo sviluppo ha come unici terreni di coltura possibili quello della tradizione e dell’ambiente familiare o, in alternativa, quello delle reti associative non istituzionali: vale a dire, circoli culturali, politici o realtà di natura confessionale in cui affondano le radici del volontariato. Le istituzioni educative e formative  restano al margine e scarsamente sensibili a questo fenomeno, e quando lo fanno si limitano a mutuare e replicare logiche e attività delle reti civili e dell’associazionismo spontaneo, senza dunque aggiungervi alcuna specificità.

In conclusione: il “reclutamento” di figure professionali per la cooperazione allo sviluppo, tanto più se dotate dello spessore motivazionale che deriva da una ben assimilata cultura della solidarietà, non è operazione di raccolta dei frutti di un campi intenzionalmente e razionalmente seminati e coltivati in modo estensivo, ma risultato di piante germinate e cresciute in terreno semi-incolto; o al massimo negli horti clausi della miriade di iniziative del volontariato sociale; fecondi, ma per loro natura troppo ristretti per incidere e fare cultura in senso ampio. 

Volontariato e solidarietà

Dunque, se  volontariato e solidarietà sono sì termini in stretta correlazione (il volontariato è una espressione e declinazione dello spirito di solidarietà), è anche vero che essi non sono né coincidenti né sovrapponibili.

L’esperienza di cooperazione universitaria del CBM in Africa è un esempio di come l’università possa davvero svolgere la funzione a lei connaturale di colmare il vuoto formativo che abbiamo descritto e disinnescare l’aporia di sistema che impedisce alle istituzioni della società  civile di fare davvero “sistema” per la cooperazione allo sviluppo.

La comunità universitaria, con la sua mission istituzionale dichiarata e tradotta in opere, promuove la solidarietà attraverso iniziative per i PVS che coinvolgono personale docente e studenti, gli uni a fianco degli altri, realizzate con spirito e con metodo universitario. La ricerca biomedica socially oriented, l’esemplarità operativa dei docenti, le passioni umanitarie coltivate come vis a tergo e ragion d’essere delle competenze da acquisire fanno dell’Università un “vivaio” di soggetti con personalità e professionalità sperimentate sul terreno della cooperazione dello sviluppo già prima del loro ingresso nel mondo del lavoro.

A una istituzione come l’università, con un ruolo centrale nello sviluppo delle conoscenze e dei saperi, corrisponderà inoltre il compito, sempre più avvertito, di mettere a punto gli  strumenti cognitivi necessari a dare corpo ad una “scienza dello sviluppo umano”  che riunisca in se in modo organico ed efficace tutti  i saperi che ruotano attorno al mondo dell’aiuto ai PVS: dalla Global Health, all’economia di mercato, anch’essa in chiave globalizzata, alla capacity building della filiera agro-alimentare, al diritto internazionale, in grado di dare risposte efficaci e innovative alle crisi che attraversa il nostro pianeta e di cui i PVS sono spesso le prime e incolpevoli vittime.