di Giovanni Mottini - Università Campus Bio-Medico di Roma

C’è un messaggio che ci piace trasmettere, quando, all’inizio dell’anno accademico,  presentiamo alle matricole della nostra Università. Ed è quello contenuto nel logo e lemma della nostra istituzione: La scienza per l’uomo.

Davanti ai loro sguardi, fra l’incuriosito e il sospensivo, diciamo che, il realtà, l’uomo non esiste…Non esiste l’uomo teorico…Esistono gli uomini. Unici, concreti, uno dopo l’altro, messi nel reale della loro esistenza, nei luoghi in cui si trovano, nell’orizzonte che è loro dato di contemplare.

L’università, la nostra Università, e quella scienza che produce e che fa il suo peso specifico, è nata per essere per e con ciascuno di loro. Un ambizione alta, verticale; e un impegno concreto, orizzontale. In mezzo alla gente, vicina e lontana; per non perdere mai aderenza con la vita di ogni giorno, e non smarrire mai l’identità da trasmettere con i fatti a chi verrà dopo di noi.

E’ così infatti che acquista il peso e il volume di ciò che è  autentico  quella affermazione della Carta delle Finalità della nostra Università, che dichiara di voler promuovere il senso della solidarietà e della fraternità, che si manifesti in opere, sapendo mettere il proprio il proprio prestigio professionale a servizio del bene comune (art. 4).

Questa promozione della solidarietà ha assunto per noi, in questi vent’anni, i connotati precisi di uno stile formativo che si propone di educare alla solidarietà attraverso lo stesso lavoro universitario; sia di ricerca che di docenza.

Il verbo educare è qui inteso nella sua accezione latina di e-ducere: vale a dire “tirar fuori” il patrimonio di idealità e creatività che è presente  allo stato nativo nei giovani che si affacciano al percorso universitario.

Questo patrimonio va messo a frutto, soprattutto nei primissimi anni universitari. Prima cioè che lo studente venga inghiottito nel tunnel professionalizzante degli anni successivi; trasformando gli ideali di servizio al prossimo, insiti nella vocazione stessa del medico, in vaghe aspirazioni che ben difficilmente troveranno spazio e tempo nella vita professionale.  

Il tema cruciale che è in gioco, e che dà spessore e prospettiva al lavoro universitario, è il rapporto che esiste fra competenze (cioè saperi), passioni e compassione.

Il lavoro di e-ducere, come componente di uno stile formativo universitario, consiste proprio nel coltivare la passione per l’uomo -  che nasce dalla disposizione a provare compassione per l’altro -  e la passione per il sapere - che sorge dalla curiositas di fronte alla complessità e varietà del reale e agli orizzonti dello scibile - per trasformarle in competenze professionali orientate ad un autentico servizio.

Interessante notare che, se da una parte la passione per l’uomo e per il sapere conducono all’acquisizione motivata delle competenze, non è affatto vero il contrario. Le realtà dimostra come le pure competenze, autoreferenziali e sganciate da una autentica attenzione all’uomo, non fanno nascere di per sé passioni buone, ma sono asservite più facilmente alle logiche di autoaffermazione e della mercificazione del sapere a fini economici.

Compito dell’università è dunque coltivare le passioni buone degli studenti.

La ragione di ciò ci sembra derivare dal fatto che la passione ha in sé una dimensione relazionale profonda, che la competenza da sola non possiede, né richiede. La passione esige sempre il confronto con l’altro, e diventa pertanto fonte e condizione dell’agire solidale.

Là dove stanno le terre degli uomini

Saint Exupery le chiamerebbe ancora oggi le Terres des Hommes…

Sono i luoghi verso cui l’università ha il dovere di guardare.

L’impegno dell’università nell’aiuto ai Paesi in Via di Sviluppo; cioè là dove l’uomo ha diritto a diventare più uomo, è senza dubbio nelle radici stesse dell’identità universitaria: crescita e trasmissione del sapere a servizio dell’uomo.

Coerente dunque rivolgere questo impegno là dove c’è  più bisogno dei benefici di questo sapere. Coerente si, ma non frequente nella declinazione pratica.

L’istituzione universitaria infatti, corre il rischio in molti casi, sotto le spinte di logiche e interessi che dovrebbero esserle estranei, di non sapersi più fare interprete dei bisogni reali di coloro in mezzo ai quali vive; quando invece ha in sé uno straordinario potenziale di servizio al bene comune.  Da qui l’impegno dell'Università Campus Bio-Medico di Roma di proporsi come università che, nel fare della formazione alla solidarietà dei suoi  studenti un aspetto irrinunciabile della sua identità, modella anche la sua forma, diventa albero; traccia un solco che resta nel tempo, arricchisce e rende feconda la terra degli uomini.

Lo strumento didattico che nel Campus Bio-Medico ha fatto, fin dai primi anni, da colonna portante di questo modello formativo è il Corso di aiuti umanitari: una attività didattica opzionale che si svolge lungo l’arco dell’anno accademico, costituita da incontri (in media 6 all’anno) con attori del mondo dell’aiuto umanitario e protagonisti di iniziative di cooperazione allo sviluppo, italiani e stranieri. Una formula dunque lontana dal modello della lezione frontale, e più orientata ad acquisire conoscenze dall’esperienza diretta di  testimoni della solidarietà internazionale. Una finestra aperta sul real world del sottosviluppo umano per conoscerlo dal suo interno.

A volte si è trattato di testimonial di imprese straordinarie e coinvolgenti: come Marguerite Barankitse, fondatrice di una iniziativa sociale e sanitaria che si prende cura delle vittime dei massacri etnici in Burundi e Ruanda, Leon Tshilolo: ricercatore e direttore sanitario di un ospedale a Kinshasa, ma anche testimonianze di iniziative di accoglienza per gli immigrati in Italia.

Sono ormai migliaia gli studenti del Campus Bio-Medico che hanno partecipato a questi incontri.

A questa attività si è affiancata, quasi di riflesso, una dimensione più operativa: un training on the job rappresentato da esperienze dirette degli studenti nei Paesi in Via di Sviluppo (PVS) presso i partner del CBM in Africa e in America latina. Le formule utilizzate sono quelle dei medical workamp con équipe miste;  composte cioè da medici e studenti del CBM e da omologhi di università locali.

 L’attività svolta è stata pianificata in protocolli di ricerca epidemiologica; concepita come componente di campagne di salute per la popolazione locale, con visite mediche, esami diagnostici e fornitura gratuita di farmaci per le patologie correnti.

Queste attività sono state pensate per rendere possibile la partecipazione anche a studenti dei primissimi anni di corso: impreparati per un attività clinico-assistenziale, ma facilmente istruibili sulle metodiche della ricerca biomedica; spesso costituita da gesti relativamente semplici e ripetitivi ma che richiedono il rigore metodologico e l’impegno che una buona dose di entusiasmo giovanile sa garantire. L’esperienza di ricerca in condizioni difficili e di precarietà (ben lontane dalle comodità e asetticità dei laboratori europei), il contatto amicale e formativo con i colleghi locali, il confronto con una realtà di povertà e malattia fanno di questi workcamp una opportunità di  formazione integrale: umana e professionale, di grande e profondo impatto.

Una formula adatta per studenti degli ultimi anni di corso è stata invece lo stage presso strutture ospedaliere africane in convenzione con il CBM. Qui si dà un’opportunità di apprendimento diretto e la possibilità di incrementare i propri skills: pratiche di sala operatoria, ambulatorio, procedure diagnostiche e di semeiotica con una intensità e prossimità quasi impensabili presso le strutture italiane. Ma è soprattutto l’integrazione di queste componenti tecnico-scientifiche con l’esperienza di relazione umana e di contatto con la realtà sociale di questi paesi a costituire il vero valore aggiunto di simili esperienze.

Sono circa duecento gli studenti che hanno fatto esperienza di workcamp o stage individuali nei PVS a fianco degli operatori sanitari locali. Da queste esperienze  hanno preso corpo tesi di laurea e specializzazione; suggestive spesso per argomento e contesto, ma soprattutto esperienze impagabili per i loro autori.

Come valore aggiunto di queste iniziative ne deriva un team di giovani ricercatori per i Paesi in Via di Sviluppo, con passione ed esperienza, che si va costituendo al Campus Bio-Medico come patrimonio stabile dell’Università ed eredità da trasmettere alle generazioni di nuovi studenti.

La controparte locale  di queste iniziative sono i partner che costituiscono la  rete di istituzioni africane con le quali l’università ha stabilito rapporti di collaborazione; nata come obiettivo a lungo termine del progetto di creazione di una comunità di ricerca Nord-Sud che il CBM ha avviato da oltre 5 anni grazie anche al sostegno finanziario di Farmindustria.

Grazie al  progetto Afia Together, che in lingua swahili significa Salute Insieme, si sono potuti raggiungere alcune fra  le  migliori istituzioni sanitarie di molti paesi africani e creare una rete Nord-Sud, ma anche Sud-Sud, per affrontare insieme le sfide della salute per il continente africano.

Vi rientrano istituzioni universitarie e non di Congo, Cameroun, Uganda, Kenia, Mauritania, Perù e Madagascar.

Obiettivo di questa community è quello di fornire ai partner africani le competenze in materia di metodologia della ricerca biomedica per condurre insieme protocolli di studio sui più urgenti e diffusi problemi di salute delle popolazioni africane, o per mettere a punto modalità assistenziali e terapeutiche adattate al contesto dei PVS. La premessa a questa  strategia di intervento è nella convinzione che le grandi patologie che affliggono l’umanità con il più alto numero di vittime: AIDS, tubercolosi e malaria sono tutte presenti principalmente nel Sud del mondo, e non possono essere adeguatamente combattute solo con armi messe a punto negli asettici laboratori di ricerca occidentali. E’ imprescindibile  la partecipazione diretta di figure professionali locali: epidemiologi, ricercatori, clinici, fino ad arrivare agli animatori comunitari, che garantiscono la compliance della popolazione sia sul versante della ricerca che di quello interventistico e preventivo.

Ulteriore aspetto, non marginale, è la produzione scientifica in termini di pubblicazioni con impact factor che si stanno accumulando come frutto del lavoro universitario realizzato nei workcamp e negli stage; a dimostrazione che la solidarietà universitaria è dimensione irrinunciabile di una professionalità matura, e non mero diversivo opzionale, per quanto lodevole.

Dietro a queste iniziative c’è un’etica della ricerca che fa da bussola d’orientamento verso un nord che è già la medicina del futuro: vale a dire la Global Health. L’interdipendenza, che è dimensione  essenziale del processo di globalizzazione, tocca anche la salute degli uomini ovunque siano, e dunque il modo di pensare medicina.

Questo intento diventa per l'Università Campus Bio-Medico di Roma un progetto formativo. Concepire e praticare sempre una ricerca biomedica che oltre ad essere ben fatta sia anche socially oriented. Cioè competenze scientifiche che si interrogano anzitutto su quali sono i bisogni reali e più urgenti dell’umanità, prima di scegliere dove impiegare le proprie energie. Dunque formare coscienze di professionisti della salute  con una forte concezione sociale dell’agire del medico.