All'incontro in UCBM, moderato dal Rettore Calabrò, sono intervenuti Melazzini, Tambone, Binetti e Gigli
23 maggio 2018 - È stata una ‘lezione’ davvero molto particolare quella andata in scena stamane, presso l’Aula Magna dell’Università Campus Bio-Medico di Roma: al centro, infatti, l’esperienza e il lascito di dubbi e riflessioni che due bambini hanno consegnato all’opinione pubblica mondiale. Alfie Evans e Charlie Gard, le loro vite, le loro malattie e l’esito controverso al quale sono andati incontro: sono stati questi gli spunti per riflettere insieme ad alcuni esperti sui limiti – qualora ve ne siano – al ‘diritto di vita’ di un minore affetto da una patologia inguaribile, partendo da un punto di vista “eminentemente laico”, come precisato dal Rettore dell’Ateneo, Raffaele Calabrò.
“Perché non cerchiamo di abbattere quella barriera e concetto culturale di utilizzo del termine ‘inguaribile’ come sinonimo di ‘incurabile’ – sottolinea Mario Melazzini, Direttore Generale dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) – che ne determina uno ‘sguardo’ diverso rispetto alla persona malata e al suo percorso di vita”. Melazzini, che vive in prima persona l'esperienza della SLA, ha fatto riferimento nel suo intervento “a tutte quelle persone che giornalmente testimoniano la quotidianità della vita con la malattia”. “Penso – riflette il direttore dell’AIFA – ai bimbi affetti da patologie simili a quelle del piccolo Alfie, senza terapie specifiche”. Storie legate da “uno speciale ‘fil rouge’: la speranza”, specifica Melazzini. Che aggiunge: “Si deve lavorare concretamente sul riconoscimento della dignità dell’esistenza di ogni essere umano che deve essere il punto di partenza e di riferimento di una società che difende il valore dell’uguaglianza e si impegna affinché la malattia e la disabilità non siano o diventino criteri di discriminazione sociale e di emarginazione”.
Un compito che nel caso dei medici, secondo il DG di AIFA, va oltre “l’eliminazione del danno biologico”, per cui “l’indipendenza e l’autonomia del medico, che è un cittadino al servizio di altri cittadini, dovrebbero garantire che le richieste di cura e le scelte di valori dei pazienti siano accolte. Non può e non deve essere una questione di costi e le scelte fallimentari del sistema sanitario inglese lo stanno testimoniando. La vita è una questione di sguardi e di speranza: ciò che oggi si pensa non essere possibile, domani chissà…”.
Accanto a lui, a poco meno di un mese dalla morte del piccolo Alfie, ha riconsiderato la dolorosa vicenda anche Vittoradolfo Tambone, Ordinario di Bioetica presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma: “La lezione di Alfie e Charlie – spiega Tambone – è importante per noi da almeno tre punti di vista: in primo luogo, è necessario che i medici siano sempre più in grado di instaurare una vera relazione di cooperazione con le famiglie senza arrivare a quello che, per una ragione o un’altra, è un fallimento dell’alleanza terapeutica; inoltre, i casi di Alfie e Charlie sembrano avverare la profezia di Michel De Foucault quando prospettava l’avvento di un potere statale con diritto di vita e di morte sul cittadino: questo mi sembra suggerire che la Bioetica è di sempre maggior importanza per costruire una Biopolitica rispettosa della vita umana; infine, è difficile dal punto di vista scientifico accettare le affermazioni del giudice inglese riguardanti ‘the best interest’ di Alfie e Charlie perché dare la morte non può essere ritenuto un atto scientifico, visto che non abbiamo evidenze disponibili riguardanti gli effetti dell’atto stesso: una decisione del genere si radica su un atto di fede, ‘dopo la morte il bambino starà meglio o peggio’ e pertanto è un’opzione estranea alla scienza medica”.
Dalle basi dell’atto medico è partita la senatrice Paola Binetti, Ordinario di Storia della Medicina presso UCBM, per aprire il proprio intervento: “Primum non nocere, deinde benefacere” ha detto Binetti, precisando che “è questo l’antico principio bioetico che andrebbe riproposto nelle delicate vicende che riguardano i bambini indifesi e le loro famiglie”. Secondo la parlamentare “da un lato, c’è la necessità di distinguere tra accanimento terapeutico e abbandono terapeutico per valutare l’effettiva correttezza delle decisioni prese dai medici con l’avallo dei giudici, anche se non è mai lecito procedere a una sospensione massiccia delle cure, incluse quelle salvavita, che per lo meno a fini palliativi andrebbero sempre mantenute. Dall’altro, c’è la necessità di ripensare il ruolo dei genitori nella presa in carico dei propri figli: la loro responsabilità e il loro diritto a prendere, quando sono minori, le decisioni che li riguardino”. Con esplicito riferimento al caso-Alfie, Binetti evidenzia come “continuare la respirazione, nutrizione e idratazione non avrebbe arrecato nessun danno al bambino, anche tenendo conto che non fosse facile immaginare quanto bene gli avrebbero concretamente fatto”.
Gian Luigi Gigli, Ordinario di Neurologia all’Università di Udine e parlamentare, nel suo intervento ha delineato i confini della patologia di Alfie, chiedendosi: “Poteva essere considerato un malato terminale? Ci avventuriamo in un terreno purtroppo non più così chiaro. Per noi, il malato terminale era quello che stava morendo ad horas, a giorni o se preferite a poche settimane. Ma i confini si stanno dilatando, sfilacciando, al punto che alcune società scientifiche in campo anestesiologico stanno proponendo di estendere il confine della ‘terminalità’ a due anni. Ma se volessimo estendere il concetto in questo modo, allora ognuno di noi è un malato terminale”.
Quindi, Gigli ha puntualizzato che “si è fatta un’operazione di giudizio sulla qualità della vita, un problema dilagante: questo caso, come quello di Charlie Gard e i casi clamorosi di Eluana Englaro in Italia o di Terry Schiavo negli USA sono balzati all’attenzione dell’opinione pubblica perché c’è stato un conflitto. Ma ce ne sono migliaia di altri in cui, ad esempio in ambito neonatologico, si potrebbe rinunciare alla cura in nome del ‘miglior interesse’ del paziente. Potremmo chiederci: c’è un interesse migliore del vivere? Ammesso che ci sia, chi lo decide? Esistono dei limiti alla potestà genitoriale? Ciò che si sta consolidando negli ultimi tempi è il fatto che tali limiti non esistono solo se la decisione dei genitori è di lasciar morire”.
L’ultima domanda di Gigli, in riferimento ai casi Evans e Gard, è stata: “Potrebbe accadere qualcosa di analogo in Italia?”. Il parlamentare ha citato l’articolo 3 comma 5 della legge sul consenso informato e le DAT: “In assenza di disposizioni di trattamento o nel caso in cui il legale rappresentante rifiuti le cure al paziente e il medico invece ritenga che siano appropriate e necessarie, la decisione è rimessa al giudice. Ma laddove genitori e medici la vedessero allo stesso modo, già oggi le cure si potrebbero sospendere, senza alcuna responsabilità civile e penale del medico”. E conclude commentando l’articolo 2, comma 2, della legge sul ‘fine vita’: “Nei casi con prognosi infausta a breve termine – e qui non sappiamo entro quanto si estendano questi confini – il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure. Le cure, non solo le terapie. Sarebbe il ribaltamento della vicenda Englaro: stiamo andando verso un tunnel nel quale l’autodeterminazione vale solo se la scelta è per la morte e non per la vita. Se passa questo tipo di cultura, in Italia ci troveremo con una condizione di eutanasia omissiva che rischia, alla luce delle esperienze britanniche, di diventare anche eutanasia omissiva volontaria”.
A moderare l’incontro il Rettore dell’Ateneo, Raffaele Calabrò: “Abbiamo deciso di organizzare questo seminario sui casi di Alfie Evans e di Charlie Gard per approfondire, con il contributo di esperti di livello internazionale, i vari aspetti etici, giuridici, medici, sociali e deontologici che la vicenda suscita. Il nostro obiettivo, infatti, è formare studenti che oltre alle competenze tecniche sappiano sviluppare anche quella dimensione di umanità e coscienza che la professione medica e sanitaria richiede per poter essere sempre accanto al paziente in ogni momento e situazione”.