La malattia di Alzheimer è la prima causa di demenza nella popolazione italiana e oltre 600.000 persone convivono con questa condizione. Sebbene la diagnosi della malattia sia, ad oggi, esclusivamente legata ai sintomi riportati al neurologo dal paziente e misurati dal neuropsicologo, la ricerca sta proponendo sempre maggiori soluzioni per la diagnosi precoce dell'Alzheimer. Un ambito promettente è nello studio delle aree del cervello preposte alla produzione della dopamina, un importante neurotrasmettitore il cui deficit è solitamente legato alla malattia di Parkinson per la quale esistono, già oggi, numerose terapie.

Un nuovo studio dell'equipe del prof. Marcello D’Amelio, Ordinario di Fisiologia Umana dell'Università Campus Bio-Medico di Roma e Responsabile del laboratorio di Neuroscienze Molecolari del Santa Lucia IRCCS, ha confermato che i livelli di dopamina nell'ippocampo, l'area del cervello sede della memoria, svolgono un ruolo nella lunga fase pre-clinica della malattia di Alzheimer, caratterizzata da ipereccitabilità corticale, piccoli episodi epilettici (spesso asintomatiche e rilevabili con approfondimenti elettroencefalografici). L'equipe di ricerca è impegnata da anni nello studio dell'Area Tegmentale Ventrale (VTA), area del cervello legata alla produzione di dopamina e coinvolta in numerose funzioni cerebrali, in quanto punto di passaggio di numerosi circuiti cerebrali che collegano aree differenti del cervello. 

"Agire prima ancora che il paziente manifesti sintomi evidenti della malattia è molto complesso, - spiega il prof. D'Amelio - per riuscirci è necessario individuare con ragionevole certezza il paziente che effettivamente svilupperà la malattia ed intervenire il prima possibile per preservare i neuroni. Infatti, non tutti i pazienti con le lesioni tipiche dell'Alzheimer sviluppano la malattia e un nostro precedente studio clinico sulla VTA ha permesso di identificare in maniera molto precoce i pazienti che svilupperanno la malattia di Alzheimer isolandoli da chi, pur presentando le lesioni da amiloide, è meno a rischio. Con questo studio aggiungiamo un ulteriore tassello alla conoscenza delle fasi pre-cliniche dell'Alzheimer. Intervenendo sui meccanismi dopaminergici del cervello con farmaci ben noti  per la loro efficacia nella malattia di Parkinson, siamo riusciti, in modelli sperimentali e non ancora sull'uomo, a preservare l'attività neuronale in aree colpite dalla malattia riducendo l'ipereccitabilità ippocampale che può sfociare in attività epilettiche, tipiche delle fasi iniziali della malattia di Alzheimer, e contribuire al peggioramento del declino cognitivo".

Questo studio conferma l'importanza che i circuiti dopaminergici rivestono nella malattia di Alzheimer, storicamente legata alla carenza di altri neurotrasmettitori tra cui l'acetilcolina. Si tratta di un ambito di ricerca promettente perché permetterebbe di trasferire le terapie oggi disponibili per la malattia di Parkinson nella malattia di Alzheimer.

"La diagnosi precoce e accurata della malattia di Alzheimer è fondamentale per selezionare i pazienti che devono imboccare specifici percorsi terapeutici anche farmacologici, incluse le terapie con anticorpi monoclonali contro la beta-amiloide. - conclude il prof. D'Amelio - È, infatti, evidente che tanto più precoce è l'inizio del trattamento tanto maggiori sono le probabilità di rallentare o auspicabilmente arrestare il deterioramento cognitivo che conduce il paziente alla completa perdita dell'autonomia. Questo lavoro va nella direzione di identificare specifiche alterazioni di eccitabilità corticale come biomarcatori di malattia che insieme ad altri, oggi disponibili, possano meglio caratterizzare lo stadio di sviluppo di malattia e aiutare il clinico a intraprendere il percorso terapeutico più adatto."