Scienza e Fede sono incompatibili?
Pensiamo all'immagine dell’adorazione dei magi. Molto probabilmente questi erano sapienti zoroastriani, provenienti dalla Persia, dediti allo studio del cielo. È un’immagine molto significativa di un’attività scientifica che porta a Dio: lo studio dell’astronomia permise loro di scoprire la cometa, che interpretarono come il segno di una rivelazione. In generale nella storia dell’umanità nelle tradizioni culturali si mescolano convinzioni religiose e studio del cosmo, quasi sempre in modo inscindibile. La scienza occidentale moderna costituisce una novità da questo punto di vista: si impegna a studiare il cosmo con un metodo rigoroso e in modo autonomo rispetto alle convinzioni religiose relative al mondo. In realtà non è un caso che questa disposizione intellettuale sia nata nell’occidente cristiano, infatti se da un lato è figlia del pensiero greco, da un altro è anche debitrice della dottrina ebraico-cristiana sulla creazione: il mondo non è Dio anche se da Lui proviene, il mondo è bello e buono e merita di essere contemplato e conosciuto, il mondo è affidato all’uomo; il mondo ha una sua legittima autonomia e razionalità, che può essere indagata dall’intelligenza anche al margine dalle convinzioni di fede, anche se a Dio in definitiva conduce, quando l’intelligenza ne indaga i fondamenti ultimi. Inoltre, non solo scienza e fede sono compatibili (anzi come si è visto l’atteggiamento scientifico moderno è in fondo in certa misura debitore della fede) ma anche la fede ha bisogno della scienza e la ricerca. La scienza è un bene per l’uomo credente e per la Chiesa in genere, trascurare questo campo, vuol dire condannarsi al fideismo di una doppia verità o avvicinare la fede alla superstizione. Come ha detto Benedetto XVI: “Sono sempre più convinto che la verità scientifica, che è di per sé una partecipazione alla Verità divina, possa aiutare la filosofia e la teologia a comprendere sempre più pienamente la persona umana e la Rivelazione di Dio sull'uomo, una rivelazione compiuta e perfezionata in Gesù Cristo.” (Discorso del Santo Padre Benedetto XVI ai partecipanti alla plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze del 31 ottobre 2008). Per approfondimenti, a questi temi è dedicato il portale web di Documentazione Interdisciplinare di Scienza e Fede.
La Chiesa è contraria alla ricerca sulle cellule staminali?
La posizione della Chiesa sulle staminali è la seguente: “si accetta e si incoraggia la ricerca sulle staminali adulte mentre si rinnega quella sulle staminali embrionali”. L’embrione è considerato dalla Chiesa come una vita e come tale deve essere di fatto rispettata. Benedetto XVI volle lodare, durante il congresso internazionale tenuto proprio su questo tema, i medici e i protagonisti di questa ricerca, perché in grado di salvare moltissime vite, ma allo stesso tempo volle sottolineare l’importanza della vita embrionale. I problemi etici che stanno dietro l’utilizzo delle staminali embrionali sono tre:
- È moralmente lecito produrre e/o utilizzare embrioni umani viventi per la preparazione di staminali embrionali?
- È moralmente lecito eseguire la clonazione terapeutica, attraverso la produzione di embrioni umani e la loro successiva distribuzione per la produzione di staminali embrionali?
- È moralmente lecito utilizzare le cellule embrionali staminali e le cellule differenziate ottenute da quelle embrionali, fornite da altri ricercatori o reperibili in commercio?
La Chiesa dà tre risposte negative, ecco perché. Per il primo problema si considera come vivente l’embrione già dalla fusione dei gameti, un individuo che inizia in quel momento il suo graduale sviluppo, essendo un essere umano ha diritto alla propria vita, quindi l’ablazione della massa cellulare interna della blastociste è un atto immorale ed illecito. Per il secondo problema la risposta è negativa perché la clonazione terapeutica prevede la riproduzione e la distruzione dell’embrione, ricadendo nel primo problema. Per il terzo quesito non importa da dove arrivino le cellule staminali embrionali, perché anche se queste sono reperibili in commercio utilizzarle significherebbe cooperare con lo stesso fornitore. Per approfondire clicca qui.
Perché gli scienziati sono atei?
Secondo un’opinione diffusa si ritiene che in genere gli scienziati siano atei, a partire dalla convinzione che scienza e fede siano incompatibili. In realtà in genere gli scienziati non sono atei. Molti dei più grandi ricercatori sono stati, e sono, persone credenti (cristiani o di altre convinzioni religiose). Già i fondatori della scienza moderna erano credenti: Copernico e Galilei per la fisica e l’astronomia, o Mendel, per la genetica, che era frate agostiniano. Anche nell’epoca contemporanea possiamo ricordare G. Lemaitre, sacerdote e grande astrofisico, il quale ha posto le basi della teoria sugli inizi dell’universo da noi oggi nota come Big Bang o F. Collins, il genetista statunitense che ha guidato il team di ricercatori che ha decifrato il genoma umano, che nel suo “Language of God” mostra l’armonia tra fede e scienza. Si possono anche ricordare altri grandi scienziati, che pur non essendo personalmente credenti erano aperti al dialogo tra scienza e fede come testimoniato dalle parole del grande fisico Max Planck, famoso per la teoria dei quanti “Scienza e religione non sono in contrasto, ma hanno bisogno una dell'altra per completarsi nella mente di ogni uomo che seriamente rifletta”. Per altri esempi clicca qui. Dal punto di vista sociologico e statistico sono state condotte diverse ricerche per valutare se davvero gli scienziati siano atei oppure no. Nel 2009 uno studio tra i membri dell’American Association for the Advancement of Science ha rivelato che il 51% di questi cedeva in Dio o in qualcosa al di là del mondo naturale, con una percentuale minore rispetto a quello dei credenti nella popolazione generale. D’altra parte uno studio condotto nel 2010 dalla Rice University su 1700 grandi scienziati mostra invece che il 70% è credente.
Le neuroscienze hanno dimostrato che non esiste la libertà?
In ambito neuroscientifico un’obiezione importante portata contro l’esistenza del libero arbitrio è considerata la scoperta sugli anticipi temporali dei potenziali evocati, condotta da Benjamin Libet negli anni ’80. In sintesi questo neurofisiologo scoprì la presenza di attività elettrica neuronale 300 ms. prima della consapevolezza dell’azione che si stava per compiere. Il setting sperimentale prevedeva che una persona, seduta davanti ad un monitor con un orologio particolare, dovesse muovere un dito quando lo avesse voluto, e ricordare grazie all’ausilio del cronometro il momento esatto in cui avesse concepito il desiderio o comunque l’impulso di dar corso all’azione. Lo sperimentatore aveva precedentemente disposto degli elettrodi in grado di rilevare il potenziale elettrico (readiness potential) di questo processo decisionale, e il risultato di questo studio, ripetuto molte volte, non lasciavo adito a dubbi: prima ancora che il soggetto fosse coscio dell’iniziativa della propria azione, i circuiti neurali erano stati attivati. In ambito neurofisiologico un anticipo di 300 ms. è da considerarsi importante. La conclusione dunque a cui si pervenne fu che il libero arbitrio sarebbe sostanzialmente un’illusione, di fatto l’essere umano sarebbe “giocato” elettricamente prima della propria scelta. A noi pare di essere liberi mentre facciamo ciò che facciamo, ma i dati elettrofisiologici smentiscono quest’impressione, il movimento inizia prima che noi lo si decida. L’unica libertà che rimarrebbe, stando ai dati elettrofisiologici, sarebbe quella di inibire il corso dell’azione, una volta che questa si sia avviata indipendentemente dalla nostra volontà. Il diritto di veto. Una prima replica da sviluppare a questo argomento è di ordine strettamente logico: l’antecedenza cronologica non è necessariamente causale, secondo l’adagio post hoc non est propter hoc. Ciò che accade prima non necessariamente è causa di ciò che viene dopo. Questo rilievo decisivo in ogni scienza obbliga a sfumare il risultato degli esperimenti di Libet. L’antecedenza dell’attività elettrofisiologica non obbliga a pensare che questa attività sia la causa dell’azione che stiamo per intraprendere. Un secondo rilievo di ordine più empirico è il seguente. Il potenziale elettrico su cui fa perno l’intero edificio argomentativo libetiano non è di facile interpretazione. Da quando è stato scoperto, con il nome di Bereitschaftspotential (1964) da H. H. Kornhuber, si sono susseguiti diversi esperimenti intesi a comprendere quale ruolo giochi questo potenziale all’interno dell’azione e i risultati di questi successivi accertamenti non sono stati conclusivi. In un lavoro del 2007 Hermann & al. hanno dimostrato che questo potenziale si attiva addirittura prima che l’azione abbia un contenuto specifico, invalidando così la tesi secondo la quale questo parametro elettrofisiologico sia direttamente correlabile all’azione in programma. Al contrario, alla luce dei nuovi esperimenti, si può riconoscere a questo potenziale elettrico il ruolo di preparazione o di attesa all’azione, ma non di determinante dell’azione stessa. Parlando più in generale si può dire che ad oggi non sussistono ragioni scientifiche per dubitare dell’esistenza del libero arbitrio.