Giovannetti ha parlato nell’ambito del seminario UCBM dal titolo ZiBra, analisi in tempo reale sul virus Zika in Brasile, dove ha presentato, insieme al Prof. Massimo Ciccozzi dell’ISS e a Silvia Angeletti dell’Unità di Ricerca di Patologia e Microbiologia Clinica UCBM, i risultati di due anni di studi sul campo.

Con il progetto ZiBra – ha detto Giovannetti – abbiamo cercato estiamo cercando di fare screening della popolazione potenzialmente infetta di cinque Stati del Nord-Est del Paese, quelli più poveri: Rio Grande do Norte, Paraiba, Algoas, Bahia e Pernambuco. Che sono, in generale, anche gli Stati in cui si è registrata la maggior parte dei casi dell’epidemia dell’anno scorso”.

20 dicembre 2016 - È diventato ‘famoso’ poco meno di 70 anni dopo la sua scoperta, avvenuta in Africa nel 1947. Eppure il genotipo che per primo ha fatto registrare casi significativi del virus Zika non è quello africano, bensì l'asiatico. Nei mesi scorsi Zika ha scatenato vere e proprie sindromi di panico per quanti dovevano recarsi nel sub-continente brasiliano, dopo l’esplosione di alcuni casi di particolare gravità, tra cui quelli che lo associavano alla microcefalia dei feti di alcune donne incinte infettate. “Un virus che comunque non è mortale”, come specificato oggi da Marta Giovannetti, ricercatrice presso il laboratorio di Hematologia e Biologia Computational dell’Instituto Gonçalo Moniz a Salvador, nello Stato di Bahia, in Brasile.

Al momento, nei cinque Stati in cui abbiamo lavorato sono stati notificati circa 10mila casi di possibile contagio Zika, ma quelli di persone realmente affette dal virus sono molti di meno”, spiega Giovannetti, che aggiunge: “Dopo l’epidemia sono arrivati tanti fondi per la ricerca. Ma, almeno all’inizio, non c’erano strutture adatte, personale qualificato, strumenti sensibili per riconoscere il virus. Non avevano protocolli standardizzati per un virus che era loro sconosciuto. Anche perché presenta sintomi simili a quelli di infezioni causate da altri virus correlati, come Dengue, Chikungunya e Febbre Gialla”.

Inizialmente si pensava che il virus fosse giunto in Brasile con il massiccio afflusso di persone volate nel Paese in occasione della Coppa del Mondo di calcio del 2014. “Ma poi, i nostri studi hanno dimostrato che verosimilmente Zika è arrivato lì già con la Confederations Cup del 2013”, chiarisce Giovannetti. Fino a pochi mesi prima, quando si sono registrati i primi episodi gravi in Polinesia francese, lo Zika-virus non era mai stato considerato dalla comunità scientifica internazionale come un problema di salute pubblica per l’uomo. “Ma in quell’anno – spiega ancora – alcune persone infettate ebbero problemi seri, tra cui la sindrome neurologica di Guillain-Barrè, che causa gravi alterazioni a livello motorio e neurologico fino ad arrivare alla paralisi”.

Per accedere ai dati epidemiologici dei cinque Stati la ricercatrice si è trasferita in Brasile. “In due anni abbiamo valutato campioni di plasma e siero di oltre il 20 per cento dei casi segnalati nel Nord-Est: 1.500-1.600 in tutto, di cui circa 300 risultati positivi per Zika-virus: più o meno il 12 per cento della popolazione con sintomi. Ma di questi – specifica Giovannetti – meno del 2 per cento è andata poi incontro a conseguenze particolarmente gravi”. Tra l’altro, la letteratura indica che l’80 per cento delle persone infettate guariscono senza neppure avere i segnali della malattia (febbre, mialgia, esantema e dolori articolari).

Lo Zika si trasmette solo attraverso la puntura di un mosquito (o zanzara) femmina.“Anche per questo in Europa - spiega Giovannetti -, dove il clima non è tropicale, la popolazione può stare abbastanza tranquilla: l’ambiente non è favorevole allo sviluppo dei mosquitos come in Brasile”. Perciò, “il danno mediatico generato per il Brasile dall’allarme-Zika è stato ben più grande rispetto alla realtà del rischio. Vivo in Brasile da due anni e, pur essendo stata punta da migliaia di mosquitos, non ho avuto nessun tipo di patologia o alterazione, chiarisce.

"Per parlare di vaccini sono necessarie altre conferme"

Oltre allo screening, i ricercatori sono riusciti a identificare 65 cloni identici del genoma del virus in altrettanti pazienti e stanno completando i test su altre 50-60 sequenze di DNA. “Prima, nelle banche dati erano presenti appena 5 genomi. Aumentare il numero di ‘carte d’identità’ uguali del virus riscontrate sulla popolazione e poterle legare a specifici sintomi consentirà, quando avremo raggiunto i 500-600 casi, di avere quella ‘massa critica’ di dati che servirà alla comunità scientifica internazionale per legare con certezza determinati sintomi al virus. Attualmente, ad esempio, nonostante la risonanza mediatica che si è avuta, non esiste una base scientifica certa che leghi l’infezione agli episodi di microcefalia registrati nei feti delle donne incinte. Stiamo lottando contro un fantasma”, spiega Giovannetti. Il virus, infatti, fa registrare spesso casi sporadici e sfugge, quindi, all’identificazione che porterebbe alla creazione di contromisure farmacologiche.

Ora, in attesa della nuova ondata di epidemia, prevista per il prossimo marzo – quando tornerà la stagione delle piogge – per la ricercatrice e il team in cui opera è una lotta contro il tempo: “Per poter parlare di vaccini mancano troppi tasselli. Sono necessarie altre conferme e la riproduzione delle stesse condizioni d’infezione causate nell’uomo dal virus sia in vitro che in vivo. Ma, poiché i sintomi sono tanto variabili, non è stato ancora possibile arrivare a questa fase”.

Una buona notizia, comunque, c’è: “Abbiamo vinto ulteriori finanziamenti per un nuovo progetto, ZiBra2 – fa sapere la ricercatrice –. Questo ci consentirà di ripetere quanto fatto finora nei cinque Stati sull’intero territorio del Brasile. Così, potremo avere un’immagine complessiva di ciò che sta accadendo, sul fronte del virus, in tutto il Paese”.

E il futuro della prevenzione? “Se – chiarisce Giovannetti – la seconda ondata dell’epidemia sarà portata dal medesimo genotipo virale, allora ci sono buone possibilità di approfondire in modo decisivo la sua conoscenza, oltre ad avere un’epidemia più lieve rispetto a quella del 2015 perché un buon numero di persone è già immunizzato. Se il virus rimane come quello dell’anno scorso – auspica la ricercatrice intervenuta in UCBM – potremo comprendere i suoi meccanismi patogenetici per cercare di disegnare linee guida e strategie di prevenzione che oggi non esistono. Ma se il virus muta talmente tanto da generare varianti nuove, dovremo ricominciare tutto daccapo”.